Romano e Nives in cima al mondo mano nella mano, battendo anche la malattia
Il 12 maggio Benet e Meroi hanno raggiunto la vetta del Makalu, la quinta montagna della terra. Un lungo ‘viaggio di nozze’ ad alta quota iniziato nel 1994 e passato attraverso mille difficolt√† soprattutto nel 2009 quando a lui fu diagnosticata l’aplasia midollare severa. Due trapianti e 7 anni dopo, invece, ancora insieme hanno conquistato il loro 13¬∞ Ottomila
E’ difficile immaginare i pensieri di Nives Meroi e Romano Benet, quando alle 10 (ora nepalese) di gioved√¨ scorso, 12 maggio, hanno calpestato la cima del Makalu, 8462 metri, la quinta montagna della terra. Il tredicesimo ottomila – manca solo l’Annapurna – della loro straordinaria avventura himalayana, cominciata nel 1994.
Sempre loro due, senza ossigeno, senza portatori d’alta quota, il pi√π delle volte in stile alpino, che significa non piazzare corde fisse e ogni giorno smontare il campo e portarsi tutto sulle spalle fino a quello successivo. E’ difficile immaginarlo perch√© la loro storia, il loro legame sfuggono, vanno oltre le comuni esperienze degli scalatori d’alta quota. Sono qualcosa di pi√π, che riesce persino a dare un senso comprensibile per tutti alla intrinseca inutilit√† dell’alpinismo. Qualcosa fatto di esplorazione condivisa, di conoscenza reciproca, di collaborazione, di comunanza, di affetto, di crescita insieme. Un’esperienza che forse non subisce nemmeno l’urgenza del racconto, perch√© sta bene l√¨, tra di loro.
Cominci√≤ tutto con un nodo, quello che il giovane Roman, di origine slovena, non sapeva fare e improvvisava ogni volta. Perch√© il suo √® stato un alpinismo al contrario, iniziato sulle difficilissime vie di Ignazio Piussi sulle montagne di casa, nel tarvisiano, per accorgersi solo in seguito che esistevano anche le scalate facili. Per accorgersi che Nives, conosciuta a Udine alle scuole superiori, quel nodo all’imbragatura invece lo sapeva fare ed era per lui la compagna di cordata ideale. “All’inizio andavamo solo in montagna insieme. Facevamo cordata fissa pi√π che altro per una questione di comodo, per non dover cercare ogni volta un compagno. Poi piano piano… Insomma alla fine ci siamo sposati per godere entrambi della licenza matrimoniale e poter partire per la nostra prima spedizione”, racconta Nives. E sulla scelta Romano √® altrettanto chiaro: “In Himalaya Nives √® in assoluto il pi√π forte alpinista che conosca. Non √® tanto brava tecnicamente, ma come resistenza fisica e psicologica non la batte nessuno”.
Fu cos√¨ che che gli sposini intrapresero la loro carriera di alpinisti d’alta quota. “Perch√© io mi diverto solo sopra i 7000 m”, sostiene Romano. Non era facile conciliare la loro passione col lavoro di guardia forestale di Romano, che al rifiuto di un periodo di aspettativa si licenzi√≤. Cos√¨ come in seguito abbandon√≤ anche un impiego sicuro come addetto alla fresa nella costruzione di gallerie, rinunciando a 5 milioni di lire al mese. I due inanellarono successi, sempre col loro stile minimalista e pulito, rispettoso dell’ambiente e dell’etica alpinistica. Nel 2003 in soli 20 giorni salirono 3 ottomila (Gasherbrum 1, Gasherbrum 2 e Broad Peak). Poi nel 2006 finalmente il K2 lungo lo Sperone Abruzzi, dopo due tentativi infruttuosi sull’ostico versante nord.
Nives divenne la prima donna italiana sulla “montagna degli italiani” e nello stesso tempo si cominci√≤ a parlare di lei nella “gara” alla conquista femminile di tutti i 14 ottomila: “In realt√† non mi √® mai interessata la competizione, anche perch√© noi donne abbiamo perso la grande occasione di dimostrarci diverse dagli uomini e siamo cadute anche noi nella trappola delle bugie, dei sotterfugi, degli egoismi”. Una compromissione dei valori dell’alpinismo che ai due divenne chiara soprattutto all’Everest nel 2007 e che li port√≤ a sentenziare che quella non era una montagna per alpinisti. Spedizioni commerciali, ossigeno, portatori d’alta quota, “alpinisti” inesperti, dispetti, discussioni, che per√≤ non impedirono a Nives di essere la prima e finora unica donna italiana in vetta senza ossigeno.
Nel 2008 il primo tentativo al Makalu, in inverno, con condizioni estreme, alpinisti sollevati e trascinati dal vento, e Nives e Romano che arrivano pi√π in alto di tutti, quasi in cima. La ritirata e scendendo dal campo base una banale caduta, la gamba di Nives che si spezza. Ha bisogno di aiuto, forse per la prima volta, Romano e l’amico Luca Vuerich se la caricano in spalla a turno per chilometri.
E’ per√≤ al Kangchenjunga nel 2009 che la vita dei due cambia improvvisamente. Questa volta √® Romano ad essere in difficolt√†: partendo dall’ultimo campo la macchina “trita 8000” si inceppa, non ce la fa. Romano incita Nives a continuare da sola, ma lei non l’abbandona, si carica tutto sulle spalle e lo accompagna in salvo al campo base. Non lo abbandona soprattutto negli anni a seguire, dopo una diagnosi che lascia poche speranze: aplasia midollare severa. Due terapie farmacologiche fallite, un primo trapianto di midollo andato male, per mesi in ospedale due volte alla settimana a fare “il pieno di sangue”. Poi, quando tutto sembra perduto, un secondo trapianto, 71 giorni di isolamento, il midollo di un ragazzo tedesco rimasto anonimo che funziona, attecchisce, si rigenera, dona una nuova vita a Romano, che dice: “La donazione √® la pi√π grande dimostrazione di alleanza umana”.
Per quelli normali sarebbe ora di mettersi tranquilli e invece no, nel 2012 i due tornano l√¨ dove si erano fermati, al Kangchenjunga. Nella foga, forse per la felicit√† di esserci di nuovo, al buio sbagliano l’ultimo tratto di salita e si ritrovano su un’anticima. Devono rinunciare, ma hanno ritrovato la loro cordata, l’alleanza, la certezza di poter continuare.
Così è,
ma le terapie hanno lasciato qualche strascico e le anche di Romano cedono. Deve farsi impiantare due protesi. Il conto col Kangchenjunga rimane aperto, ma per poco. Il 17 maggio del 2014 sono in vetta, stavolta quella giusta, sorprendendo tutti, anche i media, così come è nel loro stile.
Infine la storia recente, la partenza segreta per il Makalu, le indiscrezioni che li fanno al campo base. E invece sono già su, a dirsi quelle cose che sanno solo loro.