Quando la malattia ‘contagia’ il lavoro
Seppur con differenze da persona a persona, il lavoro rappresenta un ambito significativo nella vita di ciascuno. Quando una persona si ammala di tumore, il ruolo lavorativo che per tanti anni ha contribuito a sostenere la sua identità vacilla e viene messa in crisi. Ognuno reagisce secondo le caratteristiche della personalità, l’età, la condizione sociale, il sostegno famigliare, le esperienze di vita, le sue convinzioni religiose, filosofiche e altri fattori. Sul luogo di lavoro, possiamo distinguere in generale tre fasi: una prima in cui la diagnosi non è ancora stata comunicata ai colleghi, una seconda fase quando invece viene comunicata e una terza, infine, quando il paziente è sottoposto ai trattamenti medici.
Nella prima fase spesso la persona non comunica subito la diagnosi ai colleghi perché l’impatto emotivo è molto forte e risulta difficile verbalizzarlo edelaborarlo: non nominare la malattia serve per contenere le angosce e tenerla, nella propria fantasia, lontana da se stessi. Con la diagnosi della patologia, nella psiche interviene automaticamente l’eco simbolica che il termine stesso – tumore – evoca: l’idea di distruzione, dolore incontrollabile, oscurità. A questa idea può subentrare il timore di essere rifiutati dagli amici, persino dalla famiglia, dai colleghi. Si possono innescare la paura di essere ridicolizzati e il sentimento di vergogna: anche se nel fisico non appaiono ancora elementi riconducibili alla malattia, l’immagine di sé viene comunque influenzata negativamente. In particolare, i tumori del sangue aggrediscono quella parte che simbolicamente è associata alla linfa vitale, all’essenza, alla parte spirituale, per cui ci si sente totalmente invasi e permeati da un ‘guasto’, da una ‘macchia’. Questa fatica nel distinguere ciò che è colpito dalla malattia e ciò che non lo è crea confusione e si fa più difficile canalizzare le energie per fronteggiare l’evento improvviso. Sul luogo di lavoro diventa arduo mantenere la stessa concentrazione e performance, si possono verificare dimenticanze, distrazioni, ritardi, incomprensioni con i colleghi. Anche se nel primo periodo il fatto di non comunicare può risultare funzionale a un’elaborazione graduale, successivamente diventa invece essenziale proprio la comunicazione, sia per elaborare la malattia sia per condividerla con i propri colleghi. Non farlo isolerebbe ancor più il soggetto, che potrebbe così ritrovarsi a rinunciare alla solidarietà e al sostegno dei colleghi. Certo, una persona potrebbe anche decidere di non comunicare nulla ai colleghi, ma il prezzo da pagare per questa scelta sarà molto alto nel medio e nel lungo termine. Non ci sono, oggettivamente, strategie o modalità precise per poter fare questa comunicazione in maniera appropriata: ognuno sa, nel proprio intimo, in che modo e con quali persone può coraggiosamente compiere questo passo.
Qui la lotta si fa dura
Quando subentrano i trattamenti oncologici l’integrazione con i colleghi può essere più delicata e difficile. Anche se i progressi della chirurgia, della radioterapia, della chemioterapia e delle terapie di supporto hanno diminuito le ripercussioni fisiche sul malato, sono comunque presenti situazioni di disagio fisico e psicologico. Il professionista malato, per esempio, si sente separato dai propri colleghi per via dei ricoveri in ospedale, per il suo aspetto e la condizione fisica, oltre che per l’esperienza così difficile da spiegare. Può farsi strada un misto tra la vergogna e l’orgoglio, talvolta il sentirsi responsabile della propria malattia. I colleghi di lavoro, d’altro canto, possono evitare il collega malato perché temono le sue trasformazioni fisiche e la sua fragilità, il sentimento di rabbia o d’impotenza. Oppure, ancora, possono temere – inconsciamente – di essere contaminati dal tumore e dalla sua sofferenza. Alcuni pensano che le proprie parole o la loro semplice vicinanza riescano a destabilizzare il malato. Questo circuito che s’instaura può far aumentare nel malato (sentendosi escluso e tenuto in disparte) dubbi rispetto al proprio lavoro e al senso di appartenenza a un gruppo.
Diventa quindi fondamentale rompere un tale circuito, certi automatismi di relazione, perché preservare la propria attività con continuità è importante al fine di mantenere un’identità forte, per non rifugiarsi nel silenzio, nella chiusura, nella passività e abbandonare il corpo e la mente. Diventa importante, per il malato che si trova lontano dal luogo di lavoro, anche mantenere i rapporti con i colleghi utilizzando gli strumenti a suo parere più idonei: telefono, sms, lettere,e-mail o altro. Ed è essenziale integrare l’esperienza della malattia nella continuità della propria vita, senza dimenticarla, cancellarla, senza vestire l’identità parziale e riduttiva del ‘malato’. A volte, famiglia e amici non comprendono l’importanza che l’ambiente di lavoro ha per la persona malata e si chiedono perché, con una situazione così grave, voglia continuare a lavorare, come se l’attività fosse un ostacolo e non un piacere o una possibilità per creare, incontrare gli altri, scambiare punti di vista, manifestare emozioni.
Perché continuare
La domanda “che senso ha il lavoro per un malato di tumore?” si fa più insistente quando il paziente è in fin di vita. Ma il lavoro è comunque un luogo di sapere e incontro anche in situazioni difficili: l’importante è lasciare sempre a lui il timone delle proprie scelte, accettando – in questo caso – sia che voglia continuare a lavorare, sia che voglia interrompere. Nel caso, invece, della scelta d’interruzione, può anche accadere che parenti e amici lo spronino a continuare il lavoro per il loro bisogno personale dimascherare la realtà della situazione. Se ciò si verificasse, il malato dovrebbe ignorare tali pressioni interpretandole non come elementi svalutanti, bensì quali gesti d’attenzione mal espressi nei suoi confronti e determinati anche da un comprensibile sentimento d’impotenza.
Spesso, nei riguardi del lavoratore malato, il suo stesso responsabile si trova in una delle posizioni estreme: o ignorare la presenza della malattia, o ingigantirla. Nella prima ipotesi, può arrivare a porre il suo dipendente davanti a richieste eccessive e carichi di lavoro troppo alti; nella seconda ipotesi, può innescare un meccanismo di emarginazione. È importante, invece, che il responsabile mantenga una giusta via di mezzo tra queste due posizioni. In definitiva, nella difficile fase della malattia e della cura, il paziente non deve rifugiarsi in una parentesi di isolamento e distacco dalla realtà ma, al contrario, impegnarsi attivamente nei limiti del possibile per mantenere una continuità rispetto al suo abituale stile di vita. E a questo possono contribuire significativamente anche le persone che gli stanno vicine.
Per un consiglio o un parere,
il dottor Luca Rousseau può
esserecontattato all’indirizzo
luca.rousseau@gmail.com