E così ho potuto dare un po' di me

 In DIRE, Donatori per caso
Qualche anno fa presi la decisione di far parte di ADMO quale potenziale donatore. Ho compiuto quel  gesto in maniera del tutto consapevole e volontaria, cioè maturando autonomamente la decisione e non per effetto di ‘passaparola’ da parte di qualcuno: sapevo che cosa stavo facendo e che cosa sarei andato a fare qualora fosse diventata concreta la possibilità di risultare compatibile con qualcuno in qualche parte del mondo, ma sinceramente non pensavo che ciò sarebbe potuto accadere. Invece… Nell’aprile scorso venni contattato dal presidente della sezione ADMO del mio paese, Copertino, il quale mi riferì che vi era una concreta possibilità di essere compatibile con una persona bisognosa di trapianto di midollo osseo per guarire da una grave forma di leucemia e che, se fossi stato ancora disponibile a portare avanti l’impegno assunto con ADMO, avrei dovuto sottopormi a ulteriori accertamenti finalizzati sia ad accertare il grado di compatibilità, sia la mia idoneità psicofisica a sostenere il prelievo di cellule staminali emopoietiche. La mia risposta fu automatica e immediata. Per un attimo mi sentii galvanizzato dalla situazione e dall’idea di donare il midollo osseo, ma subito dopo cominciai a rendermi conto che quella telefonata avrebbe potuto significare tutto e nel contempo nulla. Nulla, perché risultare compatibile significava che la Natura avrebbe dovuto combinare insieme quella serie di fattori, di coincidenze che avrebbero reso concreta proprio quell’unica possibilità su centomila di risultare geneticamente uguale a una persona non consanguinea. Nei mesi successivi mi sottoposi ai previsti accertamenti, fino a quando da lì a poco appresi la notizia tanto attesa: ero compatibile!
L’8 agosto scorso sono stato ricoverato presso il reparto di Ematologia del Policlinico di Bari, dove un’equipe di medici ed esperti, oltre a coccolarmi, ha curato l’espianto del mio midollo Le sensazioni che ho provato sin dal primo momento in cui ho messo piede nell’ospedale sono state le più disparate: la paura, o meglio, l’ansia di affrontare l’anestesia per la prima volta ha ben presto lasciato posto alla consapevolezza, alla gioia che quel piccolo sacrificio che stavo per compiere significava dare la vita a un’altra persona, dare la possibilità di sperare, sperare di realizzare il sogno nel cassetto che tutti abbiamo, sperare di tornare a fare anche le cose abituali della vita quotidiana. Quelle cose che a volte tanto ci annoiano, ma che se per un attimo pensassimo di non poter più fare – perché la nostra vita sta cambiando – cominceremmo ad apprezzare. Così, con in mente questi pensieri l’anestesia ha cominciato a fare il suo effetto… Poi, poche ore trascorse senza sentire nulla fino a quando ho avvertito voci che mi dicevano che tutto era finito ed era andato nel migliore dei modi. Il risveglio dall’anestesia è stato per me il momento più bello e che più mi ha fatto emozionare, perché è stato come portare a termine una missione. Una missione non imposta da alcuno, ma in cui qualcun altro ci spera. Già qualche giorno dopo l’espianto sono tornato alla normalità. E mi sento già pronto a rinnovare la mia disponibilità per un’altra donazione, se dovesse servire magari per la stessa persona. Ma quello che più spero è che si prenda coscienza di quanto sia importante la tipizzazione: oltre alle terapie, credo sia proprio questa l’altra potente arma a disposizione per debellare le malattie del sangue. E, soprattutto, vorrei che la mia personale esperienza potesse servire a quanti si avvicinano per la prima volta all’ADMO e a quanti, già potenziali donatori, attendono come ho atteso io quella telefonata che ti fa guardare il mondo in maniera un po’ diversa dal solito.
Ho un solo rammarico: quello di notare nelle persone la convinzione che alcuni gesti si possano compiere soltanto se ad avere bisogno è una persona vicina, come a dire che il sacrificio vale la pena farlo solo per aiutare qualcuno che si conosce. Ma per me così non è stato.
  Alessandro Vangeli
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